In questi giorni, Checco Costa avrebbe compiuto 110 anni: nato il 7 aprile, il fondatore del circuito del Santerno morì nel 1988 per un banale incidente stradale. Destino beffardo, per lui abituato a vedere alternarsi mito, sangue e generazioni sull’asfalto della leggenda. Chissà cosa avrebbe detto, oggi, Checco Costa, del suo autodromo reso silenzioso, senza pubblico, svuotato della festa ma non dei campioni.
Solo idrocarburi e rombi, niente voci o bandiere. Un autodromo, quello ‘disegnato’ con un gruppo di amici in una notte di fine anni Quaranta, che venne inaugurato – il 25 aprile 1953 – davanti a 60mila persone. Erano i giorni dei pionieri del mutòr, come si dice in Romagna, e da pionieri è questa stagione degli anni Venti del secondo millennio. La città è vestita a festa, con striscioni dove i vincitori dei gp albergano sotto i portici; in centro sfrecciano Ducati, Pagani e Lamborghini.
Ma l’Enzo e Dino Ferrari avrebbe meritato di più. Nei giorni d’oro oltre 130mila spettatori stazionavano in poche ore tra Tosa, Rivazza e tribune. Un picccolo numero di spettatori, fra 5 e 10mila unità, sarebbe stato possibile. Con distanziamenti, ingressi e uscite dedicate, ristoranti e servizi divisi per ‘bolle’, seggiolini all’aperto distanti anche dieci metri e tamponi e quant’altro.
Il protocollo era pronto: ma come a novembre, le scelte di Roma hanno detto no a una presenza pur in sicurezza. E la città che è in festa, perché spera nel tris della Formula 1 del 2022, deve fare i conti con un indotto che non è quello sperato. Niente catering, niente ristoranti in presenza, niente alberghi e b&b pieni.
«Quando c’era la Formula 1 con il suo carico ‘normale’, in una settimana producevamo il lavoro di due mesi standard – racconta Massimiliano ‘Max’ Mascia, chef due stelle Michelin del glorioso ristorante San Domenico, uno dei templi gastronomici d’Italia –. La mancanza di pubblico è assurda. Ci sono tribune all’aperto con seggiolini distanziati, i protocolli erano stringenti e precisi. Assistiamo già alle prime riaperture, ma per noi è sempre no. I ristoranti avrebbero gestito piccoli spazi ristoro sotto ogni tribuna. Sarebbe stata una spinta per tornare a lavorare. Noi rispettiamo le regole, siamo disponibili a ogni forma di controllo e di restrizione. Ma negli ultimi 100 giorni ne abbiamo lavorati realmente venti».
L’unico orizzonte «è quello della pubblicità, del ritorno di immagine, della dimostrazione di quanto è bello l’autodromo. E di quanto gli amministratori regionali e locali si sono impegnati per questa gara. E’, insomma, un investimento per il futuro, una bella vetrina nel mondo», conclude Mascia.
I giorni dei tedeschi che arrivavano a centinaia (tanto che alcuni si sono stabiliti proprio in città), delle grigliate nei campi di peschi attorno al tracciato, degli infiniti tentativi di scavalcare rovi e muretti rischiando di finire nel fiume Santerno sono lontani.
Imola e l’euforia per il mutòr
Resta, però, un’euforia negli imolesi. Contenti anche solo di sentire il mutòr, con i cavalli dilatati dal vento che soffia dalle Acque Minerali fino al centro e alla prima periferia. Non è un caso che il Comune chiuda le strade attorno al circuito. Nel primo giorno dell’edizione di novembre, la gente s’era radunata per ascoltare il rombo, anche senza vedere nulla. Poesia automobilistica.
Valerio Baroncini
Ultima modifica: 13 Aprile 2021